La libertà di espressione è a rischio, pressoché ovunque. Perché organizzazioni come l’Onu, l’Unione Europea, il governo italiano stanno prendendo sul serio le richieste dei paesi a maggioranza islamica e dei leader religiosi cristiani. Aumentano le pressioni da parte delle confessioni religiose per reprimere la critica o la satira bollandole come blasfeme e offensive: occorre cominciare a rispondere. Il Center for Inquiry, negli Stati Uniti, ha già cominciato a farlo.
Dalla diffusione del film anti-Maometto, cui sono seguite le vignette della rivista francese Charlie Hebdo, gli integralisti islamici hanno scatenato violente proteste in tutto il mondo. Intimidazioni che puntualmente riemergono per qualsiasi pretesto, in maniera incontrollata. Ormai, vista la diffusione delle notizie tramite internet, basta ad esempio una foto su Facebook per scatenare un putiferio dall’altra parte del mondo.
Come accaduto di recente in Bangladesh, dove appunto la pubblicazione di una foto ritenuta offensiva verso il Corano sul più noto social network da parte di un buddhista ha scatenato la rabbia islamica. Con migliaia di manifestanti scesi in piazza e l’assalto a diversi templi buddhisti, dati alle fiamme per rappresaglia.
Di fronte ad una situazione sempre più grave e all’escalation della violenza religiosa, i paesi occidentali sembrano sempre più propensi ad un clergymen’s agreement. Perché di gentlemen non si tratta di certo, visto l’enorme discriminazione che si compirebbe a danno dei laici. Assecondare gli integralisti comprimendo gli spazi di libertà è un comportamento assurdo: è come darla vinta ai bulli a scuola. Come tutti ricordano, dargliela vinta non è mai servito a nulla, se non ad aumentare i loro comportomenti bullisti. Allo stesso modo, cedendo sulla libertà di espressione si rischia concretamente di far crescere l’estremismo religioso, sempre più legittimato e tollerato.
Proprio per favorire un cambiamento di rotta e sensibilizzare sull’importanza della posta in gioco il Center for Inquiry, organizzazione statunitense attiva nella promozione del pensiero laico e scientifico e nella tutela dei diritti, ha avviato una campagna per la difesa della libertà di espressione.
Trasversali i casi trattati dal Cfi, segno che in tutto il mondo le religioni maggioritarie puntano alla repressione del dissenso. Ogni tipo di dissenso. A farne le spese, spesso anche i credenti di alcune confessioni, che però a volte applicano gli stessi metodi nei paesi dove gestiscono il governo. In Russia le Pussy Riot sono state condannate a due anni di prigione per offese alla Chiesa ortodossa. In Indonesia Alexander Aan è stato arrestato per aver scritto su Facebook di essere ateo. Ma non mancano i cristiani, vittime di leggi integraliste. Come Asia Bibi, condannata a morte in Pakistan perché accusata di aver fatto affermazioni ‘blasfeme’ nei confronti del profeta Maometto. E Rimsha Masih, una quattordicenne disabile accusata di aver bruciato testi islamici. Rilasciata dopo che è emerso che il suo accusatore, un religioso musulmano, aveva falsificato le prove. Ma che tuttora vive nascosta per timore di rappresaglie.
Nonostante si parli spesso solo di credenti che subiscono angherie, atei e agnostici sono categorie da sempre disciminate. Quanto sia vivo il problema lo dimostra il report presentato lo scorso agosto da varie associazioni di non credenti al dipartimento di stato Usa. Quanto rilevato nel report è solo la punta di un iceberg, basti prendere in considerazione il caso dell’Italia.
Anche l’Uaar ha seguito i casi della campagna del Center for Inquiry. Non solo, su Facebook, quelli di Aan e delle Pussy Riot. Ma anche quello di Sanal Edamaruku, presidente di un’associazione razionalista indiana ‘colpevole’ di aver svelato un finto miracolo in una chiesa cattolica a Mumbai. O del giovane egiziano Alber Saber, un ateo arrestato perché gestiva una pagina di atei su Facebook, dove ha condiviso il trailer del contestatissimo film The Innocence of Muslims. Anche Hamza Kashgari, giovane poeta arabo condannato a morte per aver twittato una immaginaria conversazione con Maometto, in cui “da uomo a uomo” esprimeva il suo scetticismo. Senza dimenticare il caso dei due tunisini condannati a sette anni e mezzo di prigione per aver espresso il loro ateismo e le critiche all’islam sui social network.
Negli ultimi secoli, la storia della libertà di espressione è stata contrassegnata da una crescente espansione. Ma non è affatto detto che non possa essere ridimensionata. Accade già nell’antichità, quando la religione cristiana venne imposta nell’impero romano come una confessione di stato, mettendo al bando tutti i culti ‘pagani’. Potrebbe accadere anche ora, con la nascita di una Santa Alleanza confessionale di dimensioni mondiali. Atei e agnostici troveranno pochi paesi e poche organizzazioni disposte a battersi per i loro giusti diritti. Se vorranno impedire questa deriva, dovranno dunque prendere coscienza del pericolo e impegnarsi in prima persona per contenere l’integralismo religioso montante.
Prima che sia troppo tardi. L’Uaar sarà, come sempre, al loro fianco.
http://www.uaar.it/news/2012/10/02/usa-campagna-liberta-espressione-center-inquiry/
Dalla diffusione del film anti-Maometto, cui sono seguite le vignette della rivista francese Charlie Hebdo, gli integralisti islamici hanno scatenato violente proteste in tutto il mondo. Intimidazioni che puntualmente riemergono per qualsiasi pretesto, in maniera incontrollata. Ormai, vista la diffusione delle notizie tramite internet, basta ad esempio una foto su Facebook per scatenare un putiferio dall’altra parte del mondo.
Come accaduto di recente in Bangladesh, dove appunto la pubblicazione di una foto ritenuta offensiva verso il Corano sul più noto social network da parte di un buddhista ha scatenato la rabbia islamica. Con migliaia di manifestanti scesi in piazza e l’assalto a diversi templi buddhisti, dati alle fiamme per rappresaglia.
Di fronte ad una situazione sempre più grave e all’escalation della violenza religiosa, i paesi occidentali sembrano sempre più propensi ad un clergymen’s agreement. Perché di gentlemen non si tratta di certo, visto l’enorme discriminazione che si compirebbe a danno dei laici. Assecondare gli integralisti comprimendo gli spazi di libertà è un comportamento assurdo: è come darla vinta ai bulli a scuola. Come tutti ricordano, dargliela vinta non è mai servito a nulla, se non ad aumentare i loro comportomenti bullisti. Allo stesso modo, cedendo sulla libertà di espressione si rischia concretamente di far crescere l’estremismo religioso, sempre più legittimato e tollerato.
Proprio per favorire un cambiamento di rotta e sensibilizzare sull’importanza della posta in gioco il Center for Inquiry, organizzazione statunitense attiva nella promozione del pensiero laico e scientifico e nella tutela dei diritti, ha avviato una campagna per la difesa della libertà di espressione.
Trasversali i casi trattati dal Cfi, segno che in tutto il mondo le religioni maggioritarie puntano alla repressione del dissenso. Ogni tipo di dissenso. A farne le spese, spesso anche i credenti di alcune confessioni, che però a volte applicano gli stessi metodi nei paesi dove gestiscono il governo. In Russia le Pussy Riot sono state condannate a due anni di prigione per offese alla Chiesa ortodossa. In Indonesia Alexander Aan è stato arrestato per aver scritto su Facebook di essere ateo. Ma non mancano i cristiani, vittime di leggi integraliste. Come Asia Bibi, condannata a morte in Pakistan perché accusata di aver fatto affermazioni ‘blasfeme’ nei confronti del profeta Maometto. E Rimsha Masih, una quattordicenne disabile accusata di aver bruciato testi islamici. Rilasciata dopo che è emerso che il suo accusatore, un religioso musulmano, aveva falsificato le prove. Ma che tuttora vive nascosta per timore di rappresaglie.
Nonostante si parli spesso solo di credenti che subiscono angherie, atei e agnostici sono categorie da sempre disciminate. Quanto sia vivo il problema lo dimostra il report presentato lo scorso agosto da varie associazioni di non credenti al dipartimento di stato Usa. Quanto rilevato nel report è solo la punta di un iceberg, basti prendere in considerazione il caso dell’Italia.
Anche l’Uaar ha seguito i casi della campagna del Center for Inquiry. Non solo, su Facebook, quelli di Aan e delle Pussy Riot. Ma anche quello di Sanal Edamaruku, presidente di un’associazione razionalista indiana ‘colpevole’ di aver svelato un finto miracolo in una chiesa cattolica a Mumbai. O del giovane egiziano Alber Saber, un ateo arrestato perché gestiva una pagina di atei su Facebook, dove ha condiviso il trailer del contestatissimo film The Innocence of Muslims. Anche Hamza Kashgari, giovane poeta arabo condannato a morte per aver twittato una immaginaria conversazione con Maometto, in cui “da uomo a uomo” esprimeva il suo scetticismo. Senza dimenticare il caso dei due tunisini condannati a sette anni e mezzo di prigione per aver espresso il loro ateismo e le critiche all’islam sui social network.
Negli ultimi secoli, la storia della libertà di espressione è stata contrassegnata da una crescente espansione. Ma non è affatto detto che non possa essere ridimensionata. Accade già nell’antichità, quando la religione cristiana venne imposta nell’impero romano come una confessione di stato, mettendo al bando tutti i culti ‘pagani’. Potrebbe accadere anche ora, con la nascita di una Santa Alleanza confessionale di dimensioni mondiali. Atei e agnostici troveranno pochi paesi e poche organizzazioni disposte a battersi per i loro giusti diritti. Se vorranno impedire questa deriva, dovranno dunque prendere coscienza del pericolo e impegnarsi in prima persona per contenere l’integralismo religioso montante.
Prima che sia troppo tardi. L’Uaar sarà, come sempre, al loro fianco.
http://www.uaar.it/news/2012/10/02/usa-campagna-liberta-espressione-center-inquiry/