La violenza sulle donne trova terreno fertile nelle realtà tradizionaliste, dove domina una concezione maschilista e patriarcale spesso alimentata dalle religioni. Le donne si ritrovano quindi in una situazione di minorità stabilita “dall’alto”, senza diritti, costrette a subire le angherie di marito e familiari. Ultimamente, con i diversi casi di femminicidio, la questione è tornata all’attenzione dell’opinione pubblica. Un fenomeno che in Italia non è solo nostrano, ma caratterizza anche una fetta delle quelle famiglie di cittadini stranieri più legate alle tradizioni e alla divisione di ruoli.
Talvolta si sente dire che certi comportamenti rigidi fanno parte di una determinata comunità. Ma che trovino una giustificazione in uno stato di diritto che tutela le persone è assurdo. Non solo, porta a situazioni sconcertanti. Come avvenuto qualche anno fa in Germania, dove un tribunale aveva concesso le attenuanti etniche e culturali a un italiano di origine sarda che aveva segregato e seviziato la compagna per settimane.
Di recente il tribunale di Milano, rifacendosi alla convenzione di Istanbul recentemente ratificata da Camera e Senato, ha condannato un cittadino siriano a un anno e sei mesi di carcere, negando proprio la validità delle attenuanti culturali. Una sentenza che, speriamo, aprirà la strada a un orientamento più rispettoso dei diritti quando si affrontano le tradizioni etnico-religiose. La donna, una italiana, subiva violenze e vessazioni ma era rimasta a casa, cosa su cui ha insistito la difesa. Anzi aveva giustificato il marito sostenendo che “era cresciuto in un paese dove la donna contava meno e dove era normale che accadessero cose del genere”. L’uomo era diventato ancora più violento quando aveva saputo che lei era incinta di una femmina, perché desiderava un figlio maschio.
I giudici hanno però contestato l’approccio multiculturalista, che per una forma di malinteso rispetto scade nell’accettazione di tradizioni che stridono con diritti e libertà, e che si è dimostrato già fallimentare in altri paesi come Germania e Gran Bretagna, favorendo i ghetti piuttosto che l’integrazione. Si fa notare infatti che sono sì ammesse diverse sensibilità culturali, ma devono essere applicati i principi fondamentali che tutelano la vittima, la quale non può “prestare il suo consenso alla lesione dei diritti indisponibili”. Proprio la convenzione stabilisce che le parti debbano vigilare “affinché la cultura, gli usi, i costumi, la religione e la tradizione o il cosiddetto onore non possono in alcun modo essere utilizzati per giustificare nessun atto di violenza”, ricordano i giudici nella sentenza.
Giusto così. Fosse finita diversamente, avremmo avuto una giustizia con un doppio binario. Se non peggio. Non saremmo stati soltanto in presenza di un’eccezione di tipo tradizional-religioso (“c’è chi può picchiare le donne rischiando meno perché è la sua cultura”), omologa a quella pretesa in materia di omofobia (“c’è chi può incitare alla violenza contro i gay rischiando meno perché è un religioso”). Ma avremmo anche messo nero su bianco che la legge premia l’ignoranza. Dubitiamo che possano esistere stati degni di questo nome che se lo possono permettere.