È stata diffusa ieri la notizia dell’uscita della nuova enciclica, scritta dall’ex papa Benedetto XVI con contribuiti del suo successore Francesco, ma firmata da quest’ultimo. Fa seguito al patto “contro il diavolo” siglato dai due pontefici e si intitola Lumen Fidei (di cui una sintesi): un documento teologico di dura pasta tedesca degli anni Cinquanta edulcorato con la melassa argentina che oggi va tanto di moda. Di primo acchito somiglia a un discutibile ircocervo ed è già stata archiviata dai mass media. L’unica notizia interessante era la stesura da parte di due papi, non tanto il suo contenuto.
"due sensibilità differenti, quella di Ratzinger e di Bergoglio, che tentano una sintesi"
Su questo aspetto ha commentato bene Marco Politi su Il Fatto Quotidiano, notando come si percepiscano in effetti due sensibilità differenti, quella di Ratzinger e di Bergoglio, che tentano una sintesi. “Nel testo le mani diverse si notano”, scrive, “Ratzinger cita Nietzsche e Dostoevskij, discetta sulla debolezza della ragione che non produce luce abbastanza quando nega la fede”. Mentre Bergoglio “insiste sull’impegno paziente a perdonare” e sulla fede come “lampada che non è una luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi”: un “approccio piano e conversevole che affascina i pellegrini in San Pietro”. Si legge che il “credente non è arrogante” e che la fede lo porta alla “testimonianza e al dialogo con tutti”: sarebbe auspicabile che queste parole venissero prese in considerazione dai credenti più ferventi, evitando la volontà di convertire e imporre le proprie idee. Inoltre, se il “dialogo” è quello solito cui ci hanno abituato realtà come il Cortile dei gentili, c’è poco da stare allegri.
Le elucubrazioni teologiche, che si lanciano nella vertiginosa e adorante corsa all’interpretazione dei singoli ideogrammi papali nella speranza che raccontino qualcosa di rivoluzionario, la lasciamo ai cultori. Ma poiché ci sono temi che riguardano anche la nostra attività, e poiché i politici tendono poi a prendere per oro colato ciò che scrivono i papi, commentiamo quei passaggi che possono avere qualche influenza concreta.
"si spende molto sulle “ragioni” della fede: sembra proprio voler rispondere alla crescente domanda di “non fede”"
Nel documento si parla ben poco di laicità: la contestata frase sul matrimonio solo tra uomo e dona sembra messa lì tanto per ribadire cosa vorrebbe la ditta, onde evitare equivoci modernisti e tanto per ricordare che l’indottrinamento religioso dei bambini parte proprio da lì. Piuttosto l’enciclica si spende molto sulle “ragioni” della fede: sembra proprio voler rispondere alla crescente domanda di “non fede” da parte del mondo moderno, dove si fa strada la secolarizzazione. Fin dal titolo si assiste all’artificio retorico per cui si ribalta il concetto dell’illuminismo, nato in reazione all’oscurantismo religioso. Orwellianamente lo si fa proprio: la fede illumina, o come è scritto, “chi crede, vede”. Si discute del rapporto tra fede, verità e ragione e si toccano temi come ateismo e agnosticismo (per carità, mai nominati), contro l’idea che “la fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani”.
La difficoltà, tipica di Ratzinger e ribadita da Bergoglio che si muove su una comune linea, di capire i non credenti è evidente da passi del genere.
Poiché la fede si configura come via, essa riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare. Nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede. Essi cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune, oppure perché sperimentano il desiderio di luce in mezzo al buio, ma anche perché, nel percepire quanto è grande e bella la vita, intuiscono che la presenza di Dio la renderebbe ancora più grande.
Una solenne caricatura dei non credenti, dipinti come persone che per il solo fatto di avere delle emozioni o provare empatia e senso sociale sono credenti a loro insaputa, oppure anelano disperatamente a Dio. Allo stantio motivo ratzingeriano fa seguito un analogo motivo bergogliano. Ma di increduli del genere non ne conosciamo: l’immagine si adatta piuttosto ai più incerti e insicuri che possono farsi cullare dal lirismo di queste parole.
"Non scivoliamo certo nella paura e nel caos, se Dio viene meno"
Un altro leitmotiv ratzingeriano è che “quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno”. Peccato che sia proprio la vita reale di milioni di persone a dimostrare esattamente il contrario, al di là delle idealizzazioni e del wishful thinking (all’inverso) di Benedetto XVI e soci. Non scivoliamo certo nella paura e nel caos, se Dio viene meno. In fondo, statistiche alla mano, le nazioni più insicure sono anche quelle più religiose: forse non a caso, poiché in situazioni di crisi e instabilità è più facile che la gente si aggrappi a certe ancore virtuali, se non possono risolvere concretamente i problemi.
“Se non crederete, non comprenderete” (Is 7,9). Le parole che Isaia ha rivolto ad Acaz troneggiano sul secondo capitolo, dedicato al rapporto tra “fede e verità”. Nell’enciclica si fa della filologia, per mostrare come il testo sacro leghi la parola “comprendere” alla parola “essere saldi”: “la fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i nostri passi. Resta una bella fiaba”. E la Verità è legata alla fede, ovviamente cattolica. “Colui che confessa la fede, si vede coinvolto nella verità che confessa”.
Il problema è che il discorso, fatto di parole ripetute spesso (come “amore”), toni dolciastri e poca sostanza, giunge alla conclusione che solo la “luce dell’amore, propria della fede, può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità”. Non si capisce perché una certa religione, con una definita e rigida struttura di dogmi e con una storia alle spalle come il cristianesimo, possa arrogarsi non solo il concetto di “verità” (che “ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi”) ma anche il monopolio dell’”amore” e dei sentimenti. È un circolo vizioso e autoreferenziale, quello del legame tra amore, fede cristiana e ragione, che non lascia spazio ad alternative. La soluzione non è la fede in generale, ma necessariamente ed esclusivamente la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa cattolica.
"atei e agnostici non hanno paura della verità, e nemmeno della Chiesa"
Comprendiamo benissimo le ragioni che spingono a certe affermazioni. Ma atei e agnostici non hanno paura della verità, e nemmeno della Chiesa. Casomai hanno paura che la “verità” della Chiesa sia imposta a tutti nel nome di una malintesa idea di amore, o che questo artificio fatto di parole suadenti sia costruito per dare un’idea povera, pietosa e misera di chi non crede, in sostanza per smorzarne la dignità e rinvigorire gli stereotipi d’antan. Atei e agnostici si limitano a sorridere della pretesa vaticana di rappresentare la verità, senza fornire alcuna evidenza e limitandosi a citare in maniera ridondante se stessi e la sterminata produzione dei secoli passati come fonte di autorità, o facendo appello all’emotività. In fondo, fin dall’inizio qualcosa non quadrava. A leggere il Vangelo, nemmeno Gesù seppe rispondere a Ponzio Pilato, quando gli fu chiesto che cos’è la verità. Figuriamoci se può saperlo il tandem papale.