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venerdì 10 maggio 2013
L’Australopithecus sediba: congiunzione tra Australopithecus e Homo?
Secondo un nuovo studio pubblicato su Science, lo scheletro dell’Australopithecus sediba è caratterizzato dai tipici tratti dell’Australopithecus e dal primo Homo, e potrebbe essere stato un’evoluzione tra le due specie.
Secondo un’altra interpretazione, questi individui potrebbero però essere una tarda forma di Australopithecus africanus, e non una nuova specie.
Presentati nel 2010, i fossili di questo ominide erano stati scoperti in una grotta a Malapa, in Sudafrica, e risalgono a circa 1.98 milioni di anni fa. Non si tratta dunque del famoso “anello mancante” (vedi: “L’anello mancante” risale a 7-13 milioni di anni fa).
Dalla scoperta, il paleoantropologo Lee Berger dell’Università di Witwatersrand e i suoi collaboratori hanno iniziato un ciclo di studi e analisi dell’anatomia e del contesto geologico, culminato la settimana scorsa con la pubblicazione di sei articoli sulla prestigiosa rivista Science.
Gli studi sui denti, la mascella, gli arti e la colonna vertebrale dell’A. sediba hanno messo in luce lo strano mix di di tratti anatomici che componeva l’anatomia dell’ominide, in parte tipici del genere Homo e in parte caratteristici delle prime australopitecine. Questi risultati faranno dell’A. sediba il nuovo punto di riferimento per tutti coloro che cercano di capire dove, come e quando il nostro genere si è evoluto.
I denti
L’analisi dentale, condotta da Joel Irish della John Moores University di Liverpool e altri studiosi, ha scoperto molte similitudini tra l’Australopithecus sediba e l’Australopithecus africanus (vissuto in Sud Africa circa 3 milioni di anni fa), ma anche caratteristiche possedute dai uno dei primi rappresentanti del nostro genere, l’Homo abilis.
Anche Darryl de Ruiter della Texas A&M University che ha eseguito l’analisi della mandibola, sostiene che l’Australopithecus sediba sia una specie distinta, in contrasto con alcune precedenti affermazioni secondo cui i fossili di Malapa non rappresenterebbero altro che una forma tardiva di africanus.
Secondo Berger, le caratteristiche dentali dell’Australopithecus sediba lo rendono “il miglior candidato” come primo antenato del genere Homo anche se, sottolinea, questa connessione sarà comunque subordinata al ritrovamento di fossili più completi di altri ominidi.
Lo scheletro
Altri aspetti dello scheletro conservano invece un’anatomia più arcaica, come per esempio le braccia, spiega Steven Churchill della Duke University, che possiedono ancora anatomia e proporzioni adatte all’arrampicata sugli alberi. L’Australopithecus sediba probabilmente era uno scalatore “di qualche tipo”, spiega Berger, che osserva anche che “arrampicarsi sugli alberi non doveva essere l’unica opzione possibile per un ominide che viveva in un paesaggio carsico”, segnato da doline e grotte.
L’antropologo dell’ Università di Zurigo Peter Schmid descrive invece il torace di A. sediba con la tipica forma svasata a imbuto dei primi australopitechi: il suo torace era quindi più simile a quello dei primati attuali che a quello dell’uomo.
Curiosamente, le parti meno conservate della gabbia toracica inferiore hanno invece un aspetto molto più simile a quello umano. Nel suo studio Scott Williams, della New York University, sostiene infatti che la colonna vertebrale dell’Australopithecus sediba fosse simile a quella dell’Homo erectus, con una porzione inferiore lunga e flessibile e leggermente curvata, la tipica conformazione data dalla camminata eretta.
Comunque, anche se il sediba era chiaramente bipede, non camminava affatto come noi. Secondo Jeremy De Silva (Boston University), l’osso del tallone dello scheletro femminile indica che durante la camminata il piede ruotava verso l’interno, con il bordo esterno che toccava il terreno insieme al tallone. “Toccare il suolo col bordo esterno del piede provoca una rotazione rapida ed eccessiva che schiaccia l’interno del piede a terra,” dice Berger, “una reazione a catena per mantenere l’equilibrio che coinvolge tibia, femore e il tronco”. Nessun altro ominide camminava così, il che lascia intendere che il modo in cui gli esseri umani usino i loro piedi non sia il risultato di un costante miglioramento evolutivo, ma soltanto l’esito delle diverse possibili alternative che si sono presentate durante l’evoluzione del nostro genere.
Lo strano modo di camminare di A. sediba, dice Berger, “potrebbe rappresentare una sorta di compromesso per un piede con caratteristiche adatte sia alla camminata che all’arrampicata sugli alberi”.
Una lunga polemica
La sua complessa anatomia rende l’Australopithecus sediba un vero e proprio mosaico di tratti arcaici e tratti moderni, ma i particolari in cui assomiglia di più al genere Homo sono dei reali indicatori di un stretto rapporto evolutivo, o sono semplicemente caratteristiche evolute in maniera indipendente nei due generi? Mentre pochi scienziati ritengono che la questione sia prossima alla soluzione, Berger appare più ottimista. “Secondo me l’A. sediba mostra così tanti tratti simili ad Homo che per lo meno deve essere considerato come uno dei possibili antenati del nostro genere”.
Questa ipotesi deve comunque scontrarsi con la difficoltà, spiega Berger, di abbandonare alcune “nostalgiche” teorie e con il fatto che i resti scheletrici così ben conservati di A .sediba “si possono confrontare solamente con un record fossile frammentario e dissociato, composto da un modesto numero di resti, molti dei quali sono stati grossolanamente gettati nel grande calderone del genere Homo”. Berger tra l’altro esclude che la mandibola ritrovata in Etiopia e datata 2.33 milioni di anni fa possa rappresentare veramente il più antico fossile del genere Homo, e anzi sostiene che tali reperti non impediscono all’A. sediba di concorrere allo stesso ruolo. La maggior parte dei ricercatori, tuttavia, è concorde sul fatto che la mascella etiope sia davvero Homo e che la strada che intraprese il nostro genere sia iniziata ben prima della comparsa del sediba.
Berger dubita che le nuove ricerche riusciranno a convincere gli studiosi in disaccordo con lui, però afferma che “in tutto il corpo, dalla testa ai piedi A. sediba possiede un tale numero di caratteri condivisi con i diversi membri del genere Homo, tra cui H. erectus, Neanderthal, e noi sapiens, che il collegamente evolutivo è evidente”.
John Hawks, paleoantropologo della University of Wisconsin ricorda che i dettagli dentali sono la miglior prova di una possibile connessione tra gli ominidi di Malapa e i primi Homo. “I nuovi studi sulle caratteristiche comuni dei denti e della mandibola indicano con chiarezza che A. sediba e A. africanus sono un taxon fratello di Homo”.
Un quadro complesso
Nonostante ciò Hawks mantiene una certa cautea, “Penso che la storia potrebbe essere ancora più complicata”, sottolineando quanto poco si sappia delle prime specie Homo, e “alla luce anche di quanto sappiamo dei mescolamenti fra specie più recenti, come i Neanderthal, è possibile che anche tra i primi Homo e la ultime australopitecine ci siano stati degli incroci”.
Indipendentemente da cosa sia l’Australopithecus sediba, i suoi resti lanciano un importante messaggio sulla prudenza che si dovrebbe avere nell’interpretazione di frammenti fossili. “Questo mosaico anatomico è il messaggio più importante che ci arriva da questo sito. Ci dice che quando si trova un frammento che si presenta come Homo, non ci si può assolutamente aspettare che anche il resto dello scheletro sarà simile a Homo”, dice Hawks. “Nessun singolo frammento potrebbe apparire più Homo di questi scheletri, eppure questi stessi resti possiedono molte caratteristiche che non vi assomigliano per niente. Ed è quello che ci aspettiamo da un genere in evoluzione”.
Il paleoantropologo Rick Potts (Smithsonian National Museum) è incerto sulla reale importanza di A. sediba nell’origine del genere Homo, soprattutto perché i primi fossili di Homo sono più vecchi di centinaia di migliaia di anni, anche se osserva che la particolare combinazione di caratteristiche nell’A. sediba “è sorprendente”. Questo è quello che rende così difficile il posizionamento di questi ominidi, dice Potts: “Per quello che ne sappiamo, penso che l’Australopithecus sediba si debba vedere come un convincente esempio dell’evoluzione altamente sperimentale avvenuta intorno all’origine del genere Homo”. In definitiva, dice, la determinazione del ruolo dell’Australopithecus sediba “dipenderà dalla discussione se sia il suo modello morfologico completo a posizionarlo in un qualche punto della storia evolutiva umana o se siano solo alcuni tratti isolati del suo scheletro”.
L’ominide “è così speciale nel suo complesso”, conclude, “ che potrebbe generare qualche ripensamento sulla classificazione dei resti umani fossili in generale e sul loro posizionamento nell’albero evolutivo”.
National Geographic
Science
http://ilfattostorico.com/2013/04/29/laustralopithecus-sediba-congiunzione-tra-australopithecus-e-homo/