Comunque la si pensi sul suo conto, Giulio Andreotti è stato un personaggio fondamentale (se non addirittura il più importante) della Democrazia Cristiana e della cosiddetta Prima Repubblica. Quella che ogni tanto si sente rimpiangere anche da insospettabili laici. Tanto da far pensare che la memoria non sia tra le qualità più diffuse.
Fin da giovane in Parlamento, ha ricoperto varie volte l’incarico di presidente del consiglio e di ministro nei dicasteri più importanti. Uomo sornione ma molto potente, clericale di vecchio stampo, ago della bilancia nella Dc e con numerosi contatti e amicizie, anche ambigue, viene sfiorato da vari scandali che coinvolgono ambienti di destra e clericali. Negli anni Settanta, da ministro della Difesa, ha rapporti sospetti con Michele Sindona, il banchiere esponente della loggia massonica P2. C’è persino chi si sospetta che non fosse estraneo alla morte di questi per avvelenamento da cianuro in carcere. Dopo che Roberto Calvi, il banchiere “di Dio” a capo del Banco Ambrosiano, viene trovato morto sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, si parlò anche di un coinvolgimento diretto di Andreotti nella P2 e nei servizi segreti paralleli, in funzione anticomunista.
"nell’Istituto Opere di Religione transitavano miliardi proprio su un conto segreto di Andreotti"
Gianluigi Nuzzi, nel suo Vaticano Spa, sulla base dell’archivio di monsignor Renato Dardozzi rivela che nell’Istituto Opere di Religione transitavano miliardi proprio su un conto segreto di Andreotti. L’esponente Dc finì sotto processo per rapporti con la mafia, in particolare con il clan dei Corleonesi. Sebbene il tribunale di Palermo abbia ravvisato vicinanza con i malavitosi, come Totò Riina, il reato è stato prescritto. Secondo i pentiti, proprio Gelli depositava i soldi dei Corleonesi nello Ior. Nuzzi ha ricostruito spostamenti per centinaia di milioni di euro che riciclavano denaro sporco e tangenti nella ‘banca’ del Vaticano. Soldi che, è il sospetto, alimentavano almeno in parte quel sistema opaco di connivenze tra ambienti della Democrazia Cristiana, criminalità organizzata che gestiva sul territorio il voto di scambio e finanza bianca più spregiudicata.
Andreotti è stato da sempre molto vicino alle gerarchie ecclesiastiche e ai papi che si sono succeduti durante la sua vita. Tra i tanti commenti, coglie bene il duplice aspetto di uomo di potere temporale e ’spirituale’ la definizione di Marco Politi, che lo ritiene un “cardinale laico”, “nel solco del curialismo tridentino e della lezione di Machiavelli”. Andreotti difendeva gli interessi della Chiesa, sostiene Politi, non come un semplice “faccendiere” della Chiesa, ma come “chi fa parte organicamente della sua struttura”.
Lo faceva in maniera discreta, impassibile ed efficace, senza sbracciarsi e sbraitare come tanti scodinzolanti crociati odierni su questioni di principio. Ha cercato l’intesa anche con i comunisti per stemperare l’impatto di riforme su divorzio e aborto. Ma è stato comunque sulle posizioni espresse dalla Chiesa, come quando sostenne l’astensione al referendum sulla fecondazione assistita. Ha convinto Pio XII a far naufragare il listone con i fascisti nel 1952 per timore che l’estrema destra diventasse troppo potente, ma dopo la guerra si era prodigato a far metabolizzare dalla Dc proprio i fascisti, per favorire il colpo di spugna sugli imbarazzanti rapporti tra Vaticano e dittatura.
"Persino alla diplomazia statunitense il Divo Giulio e i suoi sembravano troppo clericali"
Andreotti ha caldeggiato anche la crescita e il consolidamento di Comunione e Liberazione, soprattutto tramite Vittorio Sbardella, spregiudicato politico romano soprannominato ‘Squalo’ e direttore del ciellino Il Sabato. Lo stesso Andreotti ha diretto 30 Giorni, rivista sempre legata a Cielle. Persino alla diplomazia statunitense il Divo Giulio e i suoi sembravano troppo clericali, come emerso dai dispacci pubblicati da Wikileaks. Andreotti è passato alla storia anche per l’attacco veemente (uno dei pochi della sua vita) al capolavoro del neorealismo italiano, il film Umberto D. di Vittorio De Sica, “reo” di aver dipinto crudamente la solitudine di un anziano in Italia, “che è anche la patria di don Bosco”.
Non c’è molto, in questo succinto resoconto, che possa spingere a rimpiangere i bei tempi della Democrazia Cristiana. Che peraltro è ancora viva, e più che mai al potere: o meglio, al potere ci sono ancora i democristiani. Persino il “giovane” presidente del Consiglio, Enrico Letta, fece a tempo tra il 1991 e il 1995 a ricoprire l’incarico di presidente dei Giovani democristiani europei. Il suo vice, Angelino Alfano, è stato segretario provinciale del movimento giovanile Dc di Agrigento. Come l’altra “giovane speranza” Matteo Renzi, provengono da famiglie di notabili Dc.
L’unica differenza è che la Dc poté contare a lungo su risultati elettorali importanti, figli di una società clericale nell’anima. I democristiani di oggi hanno invece a che fare con una società sempre più laica e secolarizzata. La classe dirigente resta tuttavia clericale nella forma, e al Vaticano tanto basta, perché quale cinghia di trasmissione dei desiderata dei vescovi è altrettanto efficace. Forse è per questo che qualche laico rimpiange i tempi di Andreotti: il Divo aveva perlomeno qualche ragione in più per essere così pervicacemente clericale. Anziché abbandonarsi ai rimpianti, però, sarebbe opportuno agire maggiormente per rendere la classe dirigente del Paese più coerente con le opinioni dei suoi cittadini.