venerdì 1 novembre 2013

Negli Usa si comincia a discutere dei costi pubblici delle Chiese

churchtax
Negli Usa la stampa ha preso sul serio le stime fatte da parte laica, come l’indagine pubblicata sul Free Inquiry che parlava di 71 miliardi di dollari di esenzioni a favore delle confessioni religiose. Privilegi contro cui si sono impegnate associazioni come la Freedom from Religion Foundation, impegnata in un recente contenzioso che ha mostrato le contraddizioni del sistema americano, dove formalmente c’è separazione tra Stato e Chiese ma in cui queste hanno forte influenza e potenti interessi. Ora anche la rivista Newsweek si chiede se le Chiese non rendano l’America “più povera“.

"in un momento di crisi come questo occorre essere “imparziali”"

Anche la Secular Coalition for America, organizzazione statunitense di non credenti, si sta muovendo per contestare le esenzioni fiscali alle confessioni. L’ente fiscale americano, l’Internal Revenue Service, classifica infatti le comunità di fede come associazioni senza scopo di lucro che possono godere di esenzioni (codice 501(c)(3)), sebbene spesso non lo siano affatto ma anzi promuovano candidati politici o usino i fondi per scopi lucrativi e non caritatevoli. Per questo, secondo le stime della SCA, se il fisco facesse rispettare in maniera più stringente i criteri, potrebbero entrare nelle casse federali più di 16 miliardi di dollari all’anno. La Coalition si sta impegnando affinché il Congresso faciliti le procedure di controllo sulle confessioni religiose da parte dell’IRS, che tuttora richiedono l’ok da parte del Tesoro. Lauren Anderson Youngblood, portavoce della SCA, chiarisce che l’iniziativa non è un “attacco alle Chiese o alla religione”: si tratta di far notare alle istituzioni che in un momento di crisi come questo occorre essere “imparziali”. Anche le organizzazioni a carattere religioso dovrebbero pagare le tasse se hanno attività lucrativa, nonché rispettare gli obblighi validi per le altre (come la compilazione del Form 990), quindi non si tratta di far versare le imposte alle Chiese in quanto tali o per le attività di charity, ma di eliminare privilegi.
 
Spesso le esenzioni vengono giustificate con il luogo comune che le Chiese fanno soprattutto carità, ma non è vero: sebbene il pregiudizio pro-religione sia diffuso, a conti fatti pesano piuttosto i costi di mantenimento per strutture e impiegati. Come fa notare Ray Cragun, sociologo che ha partecipato alla ricerca pubblicata sul Free Inquiry e autore del già citato What You Don’t Know about Religion (but Should), che snocciola alcuni dati. Nelle 271 congregazioni negli Usa in media i costi di gestione ammontano al 71% e la maggior parte finisce per gli stipendi dei ministri. Mentre per esempio la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (i mormoni) tra il 1985 e il 2008 hanno spesso solo lo 0,7% per la carità. Per fare un paragone, ogni anno la catena di supermercati Wal-Mart dona 1,75 miliardi in cibo alle charity, quasi il doppio di quanto non abbiano mai donato i mormoni Usa in 25 anni. Mentre la Croce Rossa americana spende il 92,1% dei suoi introiti per prestare dei servizi di assistenza e il 7,9% per i costi di gestione.

Le Chiese sono anche molto attive a livello politico, cosa che stride con lo status di 501(c)(3). La conferenza episcopale statunitense potrebbe vedere il proprio status revocato per la sua ingerenza in politica. Ma le confessioni, nel timore di perdere ricche prebende, sono sul piede di guerra: il Pulpit Freedom Sunday, organizzato dall’Alliance Defending Freedom (già Alliance Defense Fund, gruppo legale cristiano integralista) e che vede pastori da tutti gli Usa rivolgersi ai candidati per condizionarli, lamenta i controlli dell’IRS. Parla addirittura di “intimidazioni e minacce” perché le Chiese hanno “diritto costituzionale di parlare liberamente e onestamente (anche su candidati e voti) senza dover temere la perdita dell’esenzione fiscale”.
 
Anche per l’Italia l’Uaar ha documentato in maniera dettagliata quanto pesa sulle tasche dei cittadini la Chiesa cattolica. Una stima che supera i 6 miliardi di euro annui, emersa dall’inchiesta I Costi della Chiesa pubblicata anche per Nessun dogma. Come già spiegato, l’argomento secondo cui la Chiesa fornisce servizi per un valore maggiore non regge, oltre a servire da apripista per lo smantellamento del welfare pubblico e laico a favore della sussidiarietà cattolicamente orientata (con tutte i problemi già noti e la mancanza di trasparenza, specie in regioni come la Lombardia).
 
"fanno sapiente marketing sui palliativi che forniscono le parrocchie"

Il problema dei costi delle Chiese esiste e Newsweek lo evidenzia fin dal titolo. Se non ci fossero gli atei a impegnarsi per queste denunce forse nessuno lo farebbe, nonostante le cifre ingenti. C’è da chiedersi perché, vista anche la crisi economica ancora in corso, e che le Chiese non stanno certo contribuendo a risolvere rinunciando alle loro prebende. Al massimo fanno sapiente marketing sui palliativi che forniscono le parrocchie e le strutture annesse, sempre ampiamente foraggiate da denaro pubblico, tra otto per mille e altri stanziamenti con i soldi di tutti. Certamente lodevole l’impegno di tanti volontari, spesso ignari di come viene gestito il fiume di denaro che ricevono le organizzazioni per le quali prestano servizio, ma non va dimenticato che la carità non è affatto gratuita per i cittadini e lo stato, né disinteressata e che rappresenta una parte minoritaria di quanto spendono le Chiese. Quello dell’assistenza è un vero e proprio business, che assicura alle confessioni religiose non solo ampi margini di guadagno per il giro di donazioni e finanziamenti, ma anche un investimento per la costruzione di una immagine positiva.
 
Ma ci sono dei lati oscuri, come dimostrano ad esempio le polemiche in Germania sui bassi stipendi assicurati dalla Caritas, gestita dalle ricchissime diocesi. Mentre sempre in Germania ha suscitato indignazione la spesa di 31 milioni di euro per la faraonica dimora del vescovo di Limburgo, monsignor Franz-Peter Tebartz van Elst. Anche di questo da noi non si parla e i bilanci delle diocesi e delle Caritas annesse non sono certo trasparenti quanto quelli Usa e tedeschi.